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Food : mangiare con gli occhi. Un libro sul rapporto fra cibo e fotografia.



Il cibo è un fondamentale indicatore per analizzare e comprendere intere civiltà. Le modalità attraverso cui gli alimenti vengono prodotti, distribuiti (venduti e acquistati) e consumati, ovvero i meccanismi alle spalle di questi tre passaggi cruciali, sono in costante cambiamento e racchiudono pertanto alcuni caratteri distintivi di un’epoca, un periodo storico o un ambito culturale e sociale.


Questo volume, che accompagna la quinta edizione della Biennale Foto/Industria, organizzata dalla Fondazione MAST e interamente dedicata al tema dell’industria alimentare, si costituisce come innesco di una serie di riflessioni sulla complessità della questione alimentare a partire dalla sua forma duplice e intermedia: metà libro di fotografia e metà ricettario. Nell’attraversare i lavori degli undici artisti protagonisti delle mostre della Biennale, provenienti da diverse parti del mondo e distribuiti lungo un intero secolo fino al giorno d’oggi, questa pubblicazione scandisce un discorso visivo e testuale sulla vasta materia del cibo che culmina in altrettante ricette pensate dallo scrittore e chef Tommaso Melilli per costituire un unico pasto.


Arte e gastronomia si fondono dalla teoria alla pratica, come accadeva alla tavola dei futuristi, primo movimento artistico a riconoscere organicamente al cibo un valore supplementare rispetto alle semplici questioni del gusto e del nutrimento con la pubblicazione del Manifesto della cucina futurista nel 1930. Scriveva Marinetti: “Pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia”[i]. È una questione di scelta e di consapevolezza.


Viviamo nell’epoca della moltiplicazione delle scelte. Nei paesi industrializzati, qualsiasi cosa viene proposta in una molteplicità di varianti. Scegliere è una possibilità e una responsabilità. Quando si tratta di alimentazione, ciò si traduce nel dilemma dell’onnivoro di cui parla Pollan nel suo celebre best-seller[ii]: essere in cima alla catena alimentare è allo stesso tempo un privilegio e un pericolo. Ogni scelta, in questo contesto, comporta una serie di effetti a cascata che vanno innanzitutto in due direzioni: verso il protagonista della decisione e (nientemeno che) verso il resto del mondo. Nel primo caso, gli effetti si misurano in termini sostanzialmente biologici: il corpo risponde conseguentemente al nutrimento che riceve. Il secondo è invece un tema sociale e civile: “[I giovani dovrebbero essere educati a] mangiare i frutti della terra vicino a dove si trovano, e cibo stagionale. È una faccenda assolutamente politica. Questa è la politica del cibo”[iii], afferma l’attivista britannico Patrick Holden.


A partire dalla sua relazione con le variabili del dove e del quando, ogni pasto costituisce una presa di posizione rispetto a un complesso sistema di potere il cui peso non si misura esclusivamente in termini economici, ma anche rispetto all’impatto che produce in ambiti solo apparentemente distanti come l’ecologia, l’identità nazionale, gli equilibri transnazionali, la religione e molto altro ancora.


Nel pieno dell’emergenza per il riscaldamento globale, sappiamo bene come il fatto di orientarsi su alimenti provenienti dalla propria regione possa costituire al tempo stesso un sostegno ai produttori del territorio e un contributo alla riduzione dei trasporti e delle relative emissioni di gas a effetto serra.


Eppure questo è soltanto uno sviluppo recente di un discorso tanto ampio quando radicato nella storia dell’uomo. Per il cibo si sono combattute molte guerre e il controllo degli approvvigionamenti ha sempre costituito una potente arma durante i conflitti: nel maggio del 1944, durante l’occupazione nazista, quando lo stipendio orario di un comune operaio si aggirava intorno alle 7,20 lire, a Bologna un chilo di burro costava 1.000 lire al mercato clandestino[iv]. Prima dell’avvento del denaro, il cibo era la moneta più diffusa. La tassa sul sale è fra le più antiche e accomuna politiche molto lontane: dall’Egitto dei faraoni ai babilonesi, dalla Cina imperiale alla Francia di Napoleone. Per via del suo forte legame con gli usi e i costumi locali, l’alimentazione è un forte agente di coesione tra individui appartenenti a un gruppo: villaggi, città, nazioni, religioni... La bandiera canadese ha al centro una foglia d’acero e il digiuno del Ramadan si interrompe tradizionalmente con un dattero.


Il cibo è uno strumento funzionale per esprimere una volontà di dominio o di resistenza. In questo senso, la cultura alimentare ha spesso avuto un ruolo centrale nell’operatività del colonialismo: tra le prime strutture edificate in Messico da Hernán Cortés, che sconfisse l’impero azteco e lo sottomise al regno di Spagna, ci sono una serie di mulini da frumento, indispensabili per sostituire il mais con il grano. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’occupazione americana, in Giappone si sono largamente diffusi i jeans, il baseball e gli hamburger: il paese che ha proibito il consumo di carne di manzo durante alcuni mesi dell’anno per oltre un millennio diventa quello che ospita il maggior numero di McDonald’s dopo gli Stati Uniti: “dal 1984, McDonald’s si trova al primo posto per fatturato nell’industria della ristorazione giapponese”[v] . Con il cibo si può affermare la ripresa di un dialogo dopo la catastrofe atomica. Il cibo è linguaggio.


“Gli uomini non hanno difficoltà a credere che il cibo sia una realtà immediata (bisogno o piacere), senza che ciò crei un ostacolo al fatto che esso costituisca un sistema di comunicazione”[vi], scrive Barthes nel 1960, quando con Levi-Strauss è tra i primi a riconoscere il valore e la funzione linguistica del cibo. Come la fotografia, di cui peraltro entrambi gli intellettuali francesi avevano una certa esperienza, gli alimenti incorporano e diffondono messaggi. Il risultato è un cortocircuito: qualsiasi fotografia del cibo è il frutto di una sorta di processo di ri-mediazione. Operazione concettuale prima e dopo il Concettuale. Immagine di un’immagine. “Il cibo può fare emergere ripetuti e costanti collegamenti tra percezione e memoria, e quando viene fotografato, si trasforma analogamente in una rete di simili connessioni e relativi ordini simbolici”[vii].


L’aspetto linguistico non costituisce tuttavia l’unica affinità tra questi due termini. Fotografia e cibo hanno infatti un legame speciale con la tecnologia. Nel primo caso è un fatto ontologico: la fotografia nasce come tecnica. Camera oscura, pellicola e obiettivo sono conquiste dell’ingegno umano messe al servizio della scienza, dell’arte, della memoria e della trasmissione di informazioni.


Per quanto riguarda il cibo, il punto di svolta è costituito dalla comparsa dell’agricoltura, che conduce dal nomadismo alla coltivazione e all’allevamento stanziali attraverso una serie di profonde innovazioni tecniche. Le prime colture di grande estensione della storia, dal grano della Mezzaluna Fertile al riso dell’Oriente fino al granoturco americano, non furono delle scoperte, ma delle invenzioni. Si svilupparono grazie a una lenta attività di selezione e di trasformazione del territorio da parte dell’uomo e lo ripagarono successivamente con la nascita di civiltà floride e potenti.


La meccanica, la chimica e la genetica del contemporaneo sono gli ultimi eredi della zappa e dell’aratro proprio come la fotografia discende dalla pittura rupestre e dal mosaico. I pixel e i sali d’argento hanno sostituito le tessere d’argilla smaltata, ma nulla si è perso della vitalità di un soggetto che, nel sostenere la vita dell’uomo, entra inevitabilmente dentro quella della sua rappresentazione. Le prime nature morte, dipinte in epoca ellenistica, simulavano la presenza di resti di cibo sui pavimenti delle case, evidenziando un chiaro intento illusionistico. L’asaroton di Sosos a Pergamo era un capolavoro dadaista duemila anni in anticipo: un pavimento sporco come opera d’arte. Oggi, quando la fotografia ha raggiunto un apice (prima della realtà virtuale e dei videogame) delle capacità mimetiche della raffigurazione, le tecniche di manipolazione digitale mettono in luce il suo rapporto ambiguo con la realtà, ovvero l’ambiguità della realtà stessa .


Grazie alla sua innata predisposizione a raccogliere informazioni sul reale, la fotografia (e tutti i cosiddetti lens-based media che da questa derivano) è al centro delle innumerevoli strategie di sorveglianza che caratterizzano la società contemporanea. Da opportunità di evasione (il rapporto fotografia-incanto non si è mai interrotto), le immagini diventano strumenti di controllo. In un mondo dove le guerre si sono spostate dentro le città e la percezione individuale del pericolo è in continua ascesa, gli occhi meccanici distribuiti in ogni angolo dello spazio antropizzato costituiscono il più diffuso agente di sicurezza. E la sicurezza è un altro concetto chiave nella relazione dell’uomo con il cibo, declinabile in due accezioni fondamentali. È innanzitutto una questione di approvvigionamento: al World Food Summit del 1996 si dichiara che “la sicurezza alimentare esiste quando tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze di cibo per una vita attiva e sana”[viii]. In secondo luogo si tratta di una problematica igienico-sanitaria. A quest’ultima si interessano particolarmente i paesi più ricchi, dove la probabilità di carestie è molto bassa e gli sforzi sono tutti concentrati a garantire alimenti privi di qualsiasi rischio per la salute. Il risultato è una selva di regole, norme e protocolli cui sono sottoposti tutti gli operatori del comparto alimentare

. L’HAACP è lo standard più noto e si basa su un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario: anziché concentrarsi sull’analisi del prodotto finito, contiene una serie di misure di prevenzione da applicarsi prevalentemente nelle fasi di produzione, conservazione e distribuzione. Nato negli Stati Uniti in campo militare per raggiungere adeguati standard qualitativi nella produzione di armi, viene impiegato per la prima volta in ambito alimentare per garantire la salubrità degli alimenti destinati agli astronauti del programma Mercury. Si trattava del primo viaggio dell’uomo nello spazio. E della prima volta in cui, ovviamente, l’uomo fotografò da tanto lontano. “Quando John Glenn divenne il primo americano in orbita, portare una macchina fotografica fu il pensiero successivo. Una macchina Ansco Autoset 35mm, prodotta dalla Minolta, fu acquistata in un negozio della zona e modificata frettolosamente in modo che l’astronauta potesse utilizzarla più facilmente quando si trovava nella sua tuta pressurizzata. All’epoca, tutto ciò che John Glenn faceva era ritenuto un esperimento. All’inizio del programma, nessuno sapeva con certezza se l’assenza di peso potesse impedire a un uomo di vedere, respirare, mangiare o ingoiare. La fotografia non costituiva niente più di un passatempo”[ix].


La fotografia non è soltanto il risultato di un processo di costante sviluppo, ma continua a sua volta a modificarsi senza sosta. Tutt’altro che immobile, si trasforma secondo uno dei principali modelli di rinnovamento del contemporaneo: l’ibridazione. “Alla fine del Ventesimo secolo, in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo; in breve, siamo tutti cyborg”[x], annunciava Donna Haraway nel 1985. Di lì a poco, le fotografie si sarebbero cominciate a realizzare con una serie di oggetti deputati principalmente ad altre funzioni: computer, tablet, console di gioco e soprattutto telefoni, miliardi di telefoni sparsi in ogni angolo del mondo. Tra i tanti corpi che subiscono una metamorfosi nel corso degli ultimi decenni, c’è anche quello della macchina fotografica. È l’ultima analogia con il cibo.


L’alimentazione è il regno dell’ibridazione, ovvero uno dei campi in cui questa ha raggiunto il maggiore livello di complessità. Non tanto da un punto di vista zoologico o botanico (come pratica orientata alla selezione delle migliori varietà da coltivare o allevare), ma soprattutto sotto il profilo geografico. In cucina il melting pot è un dato di fatto già da moltissimi anni, al di là di qualsiasi pregiudizio. Qui la diversità è ricchezza e la migrazione un imprescindibile fattore di crescita. Senza ingenuità: con ciò non si intende che si tratti di un processo semplice o indolore, ma non c’è dubbio che la prospettiva storica porti a un ridimensionamento del concetto stesso di purezza a favore dell’innesto, della combinazione e del meticciaggio. “Il rigido ancoramento geografico a luoghi determinati, enfatizzato in favore di paradigmi identitari prevalentemente nazionali e piegato alle logiche del marketing territoriale e dell’agenda politica, ignora completamente i contatti nello spazio che, nel passato come nel presente, hanno dato vita a una varietà di scambi e ibridazioni di modelli originari”[xi].


Le patate, che hanno costituito il carburante a basso costo della rivoluzione industriale in Europa (forniscono una quantità di calorie 2-4 volte superiore rispetto ai cereali a parità di superficie coltivata), provengono dalla terra rossastra delle gloriose alture andine. L’arancia, orgoglio dell’agricoltura californiana, spagnola e siciliana, è un antico incrocio cinese risalente a oltre 4.000 anni fa [Ando Gilardi]. La pianta del caffè arabico è endemica dell’Africa nordorientale (Etiopia, Sudan, Kenya). Le patatine dei fast-food si chiamano french fries, il piatto preferito dagli stessi americani è la pizza e quello più amato dai britannici è il chicken tikka masala, come ha dichiarato il Ministro degli Esteri Robin Cook in un discorso del 2001 sull’importanza del multiculturalismo: “Il chicken tikka masala è oggi un autentico piatto nazionale britannico, non soltanto perché è il più popolare, ma perché costituisce una perfetta illustrazione del modo in cui i britannici assorbono e adattano le influenze esterne. Il chicken tikka è un piatto indiano. La salsa masala è stata aggiunta per soddisfare il desiderio del popolo britannico di mangiare la carne in abbinamento con un intingolo”[xii].


Come un piatto di pollo in salsa speziata (le cui ricette sono naturalmente innumerevoli, gelosamente custodite e rigorosamente locali), questo libro è un ibrido. Può essere riposto di fianco alla dispensa o sullo scaffale della libreria dello studio. Serve a mettere insieme una cena speciale per gli ospiti, ma anche per esplorare, a partire dalle immagini, il passato e il presente di una materia che ci ri-guarda tutti i giorni della nostra vita. Secondo un progetto di campionatura: ogni lavoro qui presentato costituisce un caso-studio.


Non si mangia soltanto con la bocca e con lo stomaco. Si mangia anche con il cervello e con tutti i sensi.


Questo è un libro da mangiare con gli occhi.

[i] Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto della cucina futurista, in ‘La Gazzetta del Popolo’, Torino, 28 dicembre 1930. [ii] Cfr. Michael Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano 2013 (tit. originale The Omnivore’s Dilemma. A Natural History of Four Meals, Penguin Press, Londra 2006). [iii] What You Eat Is Political: The Power of Provenance, Patrick Holden and Mark Hix in conversation, in Aaron Cezar, Dani Burrows (a cura di), Politics of Food, Delfina Foundation / Sternberg Press, Londra / Berlino 2019, p. 72. [iv] Cfr. Luciano Bergonzini, Bologna 1943-1945. Politica ed economia in un centro urbano nei venti mesi dell’occupazione nazista, Clueb, Bologna 1980, p. 81. [v] Katarzyna J. Cwiertka, Modern Japanese Cuisine. Food, Power and National Identity, Reaktion Books, Londra 2006, p. 164. [vi] Roland Barthes, ‘L’alimentazione contemporanea’, in Scritti (a cura di Gianfranco Marrone), Einaudi, Torino 1998, p. 49 (tit. originale ‘Pour une psycho-sociologie de l’alimentation contemporaine’, Annales 16, 1960. [vii] Susan Bright, Feast for the Eyes: The Story of Food in Photography, Aperture, New York 2017, p. 22. [viii] Cfr. Rome Declaration on Food Security, World Food Summit, 13-17 novembre 1996, Roma. [ix] Gary H. Kitmacher, Steve Garber, Astronaut Still Photography during Apollo, https://www.history.nasa.gov/apollo_photo.html, consultato il 11/07/2021. [x] Donna J. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995, p. 41 (tit. originale Manifesto for Cyborgs: Science, Technology and Socialist Feminism in the 1980s, Socialist Review, 80, 1985). [xi] Laura Di Fiore, Cibo e patrimonio, una questione politica, in Massimo Montanari (a cura di), Cucina politica. Il linguaggio del cibo fra pratiche sociali e rappresentazioni ideologiche, Laterza, Bari 2021, p. 172. [xii] Robin Cook’s Chichen Tikka Massala Speech. Extracts from a speech from the foreign secretary to the Social Market Foundation in London, The Guardian, 19 aprile 2001, https://www.theguardian.com/world/2001/apr/19/race.britishidentity, consultato il 11/07/2021.

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